Licenziamento per uso dell’ internet aziendale [E.Massi]

23 Giugno, 2017   |  

Con una sentenza alquanto precisa nei contenuti e nelle motivazioni, la Corte di Cassazione ha confermato la piena legittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo nei confronti di un dipendente che, per 27 volte, per un totale di 45 ore e con un notevole scambio di dati (migliaia di kbyte), aveva, in maniera sistematica, utilizzato la connessione internet aziendale per fini esclusivamente personali, con una condotta reiterata ed intenzionale.

La decisione della Suprema Corte e’ la n. 14862 del 15 giugno 2017: al di là del contenuto, essa è importante in quanto sottolinea e ribadisce alcuni principi che valgono anche per istituti disciplinati da altre norme: mi riferisco, essenzialmente, al valore del comma 1 dell’art. 7 della legge n. 300/1970, alle modalità di controllo ex art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ed alle tutele della riservatezza scaturenti dalle direttive del “Garante per la privacy”.

Dopo aver esaminato e respinto talune obiezioni che facevano riferimento al tardivo invio del provvedimento di licenziamento rispetto alla tempistica fissata dal contratto collettivo, la Corte si sofferma, ampiamente, sulla mancata affissione, in luogo accessibile a tutti, del regolamento aziendale sulle infrazioni disciplinari.

Come e’ noto, la Cassazione, con un indirizzo ormai costante e definitivo, ha affermato che la mancata affissione delle regole disciplinari comporta la nullità del provvedimento sanzionatorio (qualunque esso sia) in base al vecchio principio del “nullum crimen sine lege ” ed anche, indirizzi meno “tranchant”, che pure si erano affermati, nel tempo, all’interno della stessa Corte (ad esempio, consegna del contratto collettivo all’atto dell’assunzione), sono stati superati.

Tuttavia, nel caso di specie, i giudici di Piazza Cavour, ritengono che non si possa parlare di nullità della sanzione in quanto la stessa (ci si riferisce, in questo caso, al licenziamento disciplinare) vale “soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro”: entrambe sono sottoposte all’onere della pubblicità che ha un unico scopo, quello di tutelare il lavoratore dal rischio di incorrere in sanzioni per fattispecie non preventivamente conosciute.
L’affissione del codice disciplinare non rileva allorquando ci sia una violazione di norme penali o una violazione degli obblighi di fedeltà e di diligenza di cui parlano gli articoli del codice civile 2104 e 2105 (che può ben riferirsi al caso in esame). In tali ipotesi la potestà di recesso da parte del datore di lavoro discende direttamente dalla norma legislativa (art. 2119 c.c., artt. 1 e 3 della legge n. 604/1966) come ribadito più volte dalla stessa Cassazione (Cass., n. 14615/2000; Cass., n. 6134/2001; Cass., n. 23120/2004). La diligenza di cui parla l’art. 2104 c.c. si sostanzia, non soltanto nella c.d. “diligenza tecnica” che consiste nella esecuzione della prestazione secondo la sua particolare natura, ma anche nei comportamenti c.d. “accessori” che si rendono necessari perché la prestazione possa essere definita utile per il datore di lavoro.

La Corte ha esaminato la questione anche sotto un altro aspetto: quello della violazione delle disposizioni di tutela e del controllo “a distanza” del lavoratore di cui parla l’art. 4 della legge n. 300/1970 e che, di recente, per effetto del decreto legislativo n. 151/2015, parzialmente modificato dal successivo decreto legislativo n. 185/2016, ha, maggiormente, condizionato, al comma 3, il potere di controllo del datore di lavoro sull’attività del lavoratore subordinando la utilizzabilità a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro delle informazioni acquisite ex commi 1 (video sorveglianza autorizzata) e 2 (strumenti di lavoro, badge, ecc.), alla condizione che venga fornita “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo n. 196/2003”.
Ebbene, questa regola generale, secondo la Corte, non trova applicazione nel caso di specie in quanto i controlli non hanno riguardato l’attività lavorativa ma sono stati finalizzati a colpire un comportamento illecito destinato a ledere il patrimonio dell’impresa, sotto il profilo della integrità dello stesso e del regolare funzionamento dell’azienda, nel rispetto di un indirizzo già espresso dallo stesso organo giudicante con la sentenza n. 10955/2015.

Tale ultimo indirizzo, a mio avviso, riveste una particolare importanza in quanto esclude dalla procedura di tutela prevista dall’art. 4 della legge n. 300/1970 tutte quelle forme di controllo destinate ad accertare comportamenti dei lavoratori di particolare gravità, non solo penale (cosa ovvia) ma anche civilistica, laddove si ritengano violati i principi di un fedeltà e diligenza e dei conseguenti comportamenti “accessori” ai quali ho fatto cenno pocanzi.
L’ulteriore doglianza sollevata dal ricorrente riguarda la violazione delle regole sulla “privacy” ampiamente tutelata dal decreto legislativo n. 196/2003. Queste norme, osserva la Corte, sono state, giustamente, poste a salvaguardia della personalità del dipendente ma, nel caso di specie, non vi e’ stata alcuna violazione in quanto l’azienda non ha analizzato i siti visitati, non ha verificato la tipologia dei dati scaricati, ne’ li ha salvati sulla propria strumentazione. Essa si è limitata, nella lettera di contestazione, ad indicare la data, l’ora, la durata della connessione e l’importo del traffico che, sicuramente, non sono dati personali e che non comportano alcun riferimento ad elementi concernenti la figura dell’utente e le sue tendenze religiose, politiche, sessuali e culturali “rimanendo i dati confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per se’ sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete”.
Una breve considerazione al termine di questa riflessione: la Cassazione, nel rispetto delle norme di tutela inserite nello Statuto dei Lavoratori (articoli 4 e 7) la cui “cogenza ” viene ribadita, individua un percorso, forse stretto, ove queste disposizioni non esplicano la loro “forza tutelante”: si tratta di situazioni nelle quali il bene aziendale e gli obblighi di fedeltà e diligenza non sono vuote parole ma valori da difendere.



Fonte : Dottrina Lavoro