La professionalità criterio di scelta nel licenziamento collettivo [E.Massi]

22 Ottobre, 2019   |  

Approfondita analisi dei criteri di scelta per l’individuazione dei lavoratori oggetto di recesso al termine di una procedura di riduzione di personale.

Sono passati quasi trenta anni dalla entrata in vigore della legge n. 223/1991 che, all’art. 5, fissa le condizioni che, pur se intervenuto un accordo sindacale (in mancanza, vengono in evidenza i criteri legali), il datore di lavoro deve seguire nella individuazione dei lavoratori oggetto di recesso al termine di una procedura di licenziamento collettivo.
In tutto questo periodo alcune certezze si sono consolidate ma resta sempre l’alea di un giudizio difforme da parte del giudice di merito in quanto, sovente, sono diverse le “sfaccettature” che assumono una particolare rilevanza e che possono condurre ad un esito della controversia molto diverso da quello sperato dall’imprenditore.

Ma, quali sono, in via generale, le conseguenze che può subire un datore di lavoro che ha sbagliato l’applicazione dei criteri di scelta?
Qui occorre fare una distinzione tra gli assunti con le c.d. “tutele crescenti”, ossia dal 7 marzo 2015, e quelli in forza da una data precedente.

Cominciamo dai primi, premettendo che in data 5 agosto 2019, il Tribunale di Milano ha rimesso al giudizio della Corte di Giustizia Europea le norme sui licenziamenti collettivi inserite nell’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015, ritenute in contrasto con la normativa comunitaria in quanto sarebbero portatrici di forti disarmonie sotto l’aspetto delle tutele tra chi è stato assunto entro il 6 marzo 2015 e chi, invece, ha iniziato il proprio rapporto, dopo. Appare evidente come un giudizio negativo costringerebbe il Legislatore italiano a rivedere l’impianto normativo.

Ma, andiamo, ora a descrivere, sia pure sommariamente, le differenti forme di tutela.
Con poche righe contenute nel predetto art. 10 il Legislatore delegato, relativamente ai nuovi assunti, allarga la disciplina prevista per i licenziamenti individuali per motivi economici a quelli collettivi che sono sempre motivati da ragioni economiche, atteso che, secondo la procedura individuata dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, traggono la propria origine da situazioni di crisi, di ridimensionamento o da processi di ristrutturazione o di riorganizzazione.

Di conseguenza, in caso di licenziamento effettuato al termine della procedura senza l’osservanza della forma scritta, il regime sanzionatorio applicabile è quello dell’art. 2 (reintegra, indennità risarcitoria calcolata sulla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, dedotto l’eventuale ”aliunde perceptum” ed, in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità, pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per l’intero periodo, possibilità per il solo lavoratore di optare, entro trenta giorni dalla sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se precedente, per una indennità risarcitoria pari a quindici mensilità).

Se, invece, il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art. 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri di scelta previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione quanto previsto all’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 (estinzione del rapporto alla data del licenziamento, indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a tre mesi di retribuzione calcolata sull’ultima utile ai fini del computo del TFR per ogni anno di servizio, con una base di partenza fissata a sei e, comunque, con un tetto massimo fissato a trentasei mensilità): tutto questo, in applicazione delle novità introdotte con il D.L. n. 87/2018. C’è, tuttavia, da sottolineare come la Consulta, intervenendo, proprio nel merito del predetto art. 3, comma 1, abbia affermato che il criterio, seppur importante, dell’anzianità aziendale,  va integrato dal giudice di merito, nel limite massimo delle trentasei mensilità alla luce dei criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.).

Per quel che concerne un lavoratore disabile avviato obbligatoriamente o riconosciuto quale portatore di handicap durante il rapporto di lavoro con una invalidità pari o superiore al 60% delle proprie capacità, sussiste una ulteriore, possibile forma di tutela. Infatti l’art. 10, comma 4, della legge n. 68/1999 afferma che è annullabile il licenziamento adottato al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale se lo stesso va ad intaccare la quota di riserva obbligatoria prevista dall’art. 3 della predetta legge e composta dal numero dei rimanenti disabili in forza.
Per i “vecchi assunti” nulla cambia circa le sanzioni correlate alle violazioni dei criteri che possono così essere riassunte:

  • mancanza della forma scritta: reintegrazione oltre ad una indennità risarcitoria, non inferiore a cinque mensilità. commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra, dedotto quanto eventualmente percepito con altra attività lavorativa, ed il pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Il lavoratore, in luogo della reintegra, può optare, entro trenta giorni dalla comunicazione della sentenza o, se antecedente, dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, per una ulteriore indennità sostitutiva, non soggetta ad alcuna contribuzione, pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
  • inosservanza di comunicazione preventiva dell’intenzione di ridurre il personale, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati: risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, con la corresponsione di una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il giudice, con motivazione, tiene conto dell’anzianità di servizio (criterio preponderante) e del numero degli occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, delle iniziative assunte dal lavoratore finalizzate alla ricerca di una nuova occupazione e del comportamento complessivo delle parti nell’ambito della procedura;
  • violazione dei criteri di scelta (art. 5, comma 1, della legge n. 223/1991): reintegra nel posto di lavoro oltre ad una indennità risarcitoria commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra (ma, in ogni caso, non superiore a dodici mensilità), dedotto quanto percepito in altra attività svolta durante il periodo di estromissione ma, dedotto anche quanto avrebbe potuto percepire cercando con diligenza un nuovo lavoro. In alternativa alla reintegra, anche in questo caso il lavoratore può optare, negli stessi termini sopra evidenziati, per una indennità sostitutiva pari a quindici mensilità. Per i Dirigenti la violazione dei criteri di scelta è punita, secondo la previsione contenuta nell’art. 16 della legge n. 161/2014, con una indennità risarcitoria (ritoccabile “in alto” o “in basso” dalla contrattazione collettiva) compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
  • comunicazione prevista dall’art. 4, comma 9, della legge n. 223/1991 intervenuta oltre il termine di sette giorni dal recesso: applicazione della tutela indennitaria compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità, prevista dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970 e modulata su alcuni specifici criteri già richiamati dall’art. 8 della legge n. 604/1966.

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 24882/2019, con la quale sono stati accolti due motivi relativi ad un ricorso presentato da una lavoratrice alla quale i giudici della Corte di Appello avevano riconosciuto, pur dichiarando la illegittimità del licenziamento, la sola tutela indennitaria prevista dall’art. 18, comma 5, fissa alcuni principi che il giudice del rinvio dovrà tenere conto nella propria valutazione:

  • le ragioni tipiche della procedura collettiva che è alla base del licenziamento debbono, necessariamente, essere evidenziate nella lettera con la quale viene disposto l’avvio della stessa, atteso che lo scopo di tale nota è quello di garantire la massima trasparenza nel confronto con le organizzazioni sindacali. La stessa delimitazione operata dal datore di lavoro, con la predeterminazione dello stabilimento, del reparto o dell’unità produttiva ove avverrà la scelta del personale da licenziare, deve trovare una propria giustificazione nelle esigenze tecniche, produttive ed organizzative;
  • nella comparazione del personale va tenuto conto del complessivo bagaglio di esperienza professionale, allo scopo di verificarne la omogeneità, cosa che giustifica il confronto. Il solo riferimento alle mansioni concretamente svolte non appare sufficiente in quanto è necessaria una valutazione complessiva “che tenga conto delle esperienze pregresse, della formazione e del bagaglio di conoscenze acquisito”.

Fin qui la Cassazione: l’ordinanza, ferma restando quella che sarà, nuovamente, la decisione della Corte di Appello chiamata a non discostarsi da questi principi, sembra rendere più difficoltosa l’opera di comparazione che il datore di lavoro deve effettuare, ai fini della legittimità del recesso. Tale operazione appare di difficile fattibilità laddove, all’interno dell’unità produttiva interessata, le persone coinvolte siano parecchie e, soprattutto, con un “passato lavorativo” diverso e con esperienze formative talora disomogenee.



Fonte : Dottrina Lavoro