Approfondita analisi dei criteri di scelta per l’individuazione dei lavoratori oggetto di recesso al termine di una procedura di riduzione di personale.
Sono passati quasi trenta anni dalla entrata in vigore della legge n. 223/1991 che, all’art. 5, fissa le condizioni che, pur se intervenuto un accordo sindacale (in mancanza, vengono in evidenza i criteri legali), il datore di lavoro deve seguire nella individuazione dei lavoratori oggetto di recesso al termine di una procedura di licenziamento collettivo.
In tutto questo periodo alcune certezze si sono consolidate ma resta sempre l’alea di un giudizio difforme da parte del giudice di merito in quanto, sovente, sono diverse le “sfaccettature” che assumono una particolare rilevanza e che possono condurre ad un esito della controversia molto diverso da quello sperato dall’imprenditore.
Ma, quali sono, in via generale, le conseguenze che può subire un datore di lavoro che ha sbagliato l’applicazione dei criteri di scelta?
Qui occorre fare una distinzione tra gli assunti con le c.d. “tutele crescenti”, ossia dal 7 marzo 2015, e quelli in forza da una data precedente.
Cominciamo dai primi, premettendo che in data 5 agosto 2019, il Tribunale di Milano ha rimesso al giudizio della Corte di Giustizia Europea le norme sui licenziamenti collettivi inserite nell’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015, ritenute in contrasto con la normativa comunitaria in quanto sarebbero portatrici di forti disarmonie sotto l’aspetto delle tutele tra chi è stato assunto entro il 6 marzo 2015 e chi, invece, ha iniziato il proprio rapporto, dopo. Appare evidente come un giudizio negativo costringerebbe il Legislatore italiano a rivedere l’impianto normativo.
Ma, andiamo, ora a descrivere, sia pure sommariamente, le differenti forme di tutela.
Con poche righe contenute nel predetto art. 10 il Legislatore delegato, relativamente ai nuovi assunti, allarga la disciplina prevista per i licenziamenti individuali per motivi economici a quelli collettivi che sono sempre motivati da ragioni economiche, atteso che, secondo la procedura individuata dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, traggono la propria origine da situazioni di crisi, di ridimensionamento o da processi di ristrutturazione o di riorganizzazione.
Di conseguenza, in caso di licenziamento effettuato al termine della procedura senza l’osservanza della forma scritta, il regime sanzionatorio applicabile è quello dell’art. 2 (reintegra, indennità risarcitoria calcolata sulla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, dedotto l’eventuale ”aliunde perceptum” ed, in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità, pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per l’intero periodo, possibilità per il solo lavoratore di optare, entro trenta giorni dalla sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se precedente, per una indennità risarcitoria pari a quindici mensilità).
Se, invece, il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art. 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri di scelta previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione quanto previsto all’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 (estinzione del rapporto alla data del licenziamento, indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a tre mesi di retribuzione calcolata sull’ultima utile ai fini del computo del TFR per ogni anno di servizio, con una base di partenza fissata a sei e, comunque, con un tetto massimo fissato a trentasei mensilità): tutto questo, in applicazione delle novità introdotte con il D.L. n. 87/2018. C’è, tuttavia, da sottolineare come la Consulta, intervenendo, proprio nel merito del predetto art. 3, comma 1, abbia affermato che il criterio, seppur importante, dell’anzianità aziendale, va integrato dal giudice di merito, nel limite massimo delle trentasei mensilità alla luce dei criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.).
Per quel che concerne un lavoratore disabile avviato obbligatoriamente o riconosciuto quale portatore di handicap durante il rapporto di lavoro con una invalidità pari o superiore al 60% delle proprie capacità, sussiste una ulteriore, possibile forma di tutela. Infatti l’art. 10, comma 4, della legge n. 68/1999 afferma che è annullabile il licenziamento adottato al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale se lo stesso va ad intaccare la quota di riserva obbligatoria prevista dall’art. 3 della predetta legge e composta dal numero dei rimanenti disabili in forza.
Per i “vecchi assunti” nulla cambia circa le sanzioni correlate alle violazioni dei criteri che possono così essere riassunte:
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 24882/2019, con la quale sono stati accolti due motivi relativi ad un ricorso presentato da una lavoratrice alla quale i giudici della Corte di Appello avevano riconosciuto, pur dichiarando la illegittimità del licenziamento, la sola tutela indennitaria prevista dall’art. 18, comma 5, fissa alcuni principi che il giudice del rinvio dovrà tenere conto nella propria valutazione:
Fin qui la Cassazione: l’ordinanza, ferma restando quella che sarà, nuovamente, la decisione della Corte di Appello chiamata a non discostarsi da questi principi, sembra rendere più difficoltosa l’opera di comparazione che il datore di lavoro deve effettuare, ai fini della legittimità del recesso. Tale operazione appare di difficile fattibilità laddove, all’interno dell’unità produttiva interessata, le persone coinvolte siano parecchie e, soprattutto, con un “passato lavorativo” diverso e con esperienze formative talora disomogenee.