Indennità risarcitoria per i licenziamenti illegittimi: cosa cambierà dopo la decisione della consulta [E.Massi]

23 Ottobre, 2018   |  

L’attenzione dei media e degli operatori è stata richiamata da una novità, contenuta nel D.L. n. 87/2018, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, attraverso la quale il Governo, rivedendo l’ipotesi relativa al superamento del meccanismo risarcitorio delle tutele crescenti, ha rivalutato l’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015

Il D.L. 12 luglio 2018, n. 87, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 161 del 13 luglio 2018, successivamente modificato, a partire dal 12 agosto successivo, dalla legge di conversione n. 96, è intervenuto, in maniera significativa, sulla disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla somministrazione e sull’indennità risarcitoria in materia di licenziamenti illegittimi: su quest’ultimo argomento, che rappresenta il punto focale di questa riflessione, il Legislatore, senza toccare i principi cardine del D.L.vo n. 23/2015 (indennità risarcitoria legata all’anzianità aziendale e nessun potere al giudice di determinare l’importo della stessa, dovendosi, lo stesso rimettere al “quantum” già stabilito dalla norma), aveva provveduto ad aumentare gli importi che, pur restando fissati, nelle imprese con oltre quindici dipendenti, a due mensilità all’anno calcolate sulla retribuzione utile per il calcolo del TFR, aveva elevato l’importo minimo a sei mensilità con un tetto massimo fissato a trentasei. Parimenti, nelle piccole imprese e nelle c.d. “associazioni di tendenza” (fondazioni, associazioni sindacali, ecc.) i valori predetti erano stati confermati nella metà degli importi con un tetto determinato in a sei mensilità.

Su tale previsione, tuttavia, è calata la “scure” della Corte Costituzionale che, con un comunicato emanato il 26 settembre 2018, ha preannunciato che, con una sentenza che sarà depositata nel giro di poche settimane e che diverrà esecutiva con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è stata dichiarata la illegittimità dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015, in quanto l’unico criterio risarcitorio legato all’anzianità aziendale del lavoratore è contrario “ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale”.

Il comunicato con il quale la Consulta ha preannunciato il deposito di una sentenza che dichiara incostituzionale, nella attuale formulazione, l’art. 3, comma 1, del D.L. n. 23/2015, cambierà, tra qualche settimana, il quadro regolatorio.
La disposizione è stata ritenuta irragionevole e contraria ai principi di uguaglianza ed in contrasto anche con gli articoli 4 e 35 della Costituzione: di conseguenza, sarà necessario, allorquando la decisione sarà depositata, leggere attentamente le motivazioni, anche perché, a fronte della incostituzionalità rilevata, occorrerà verificare se, in automatico, la sentenza avrà un diretto effetto, oppure, se il Legislatore dovrà decidere quale disposizione scrivere, in ottemperanza alle decisioni della Corte. Senza voler anticipare scelte che, se del caso, competeranno unicamente a quest’ultimo, si può argomentare che se si resta nell’ambito dell’indennità risarcitoria e non della reintegra, la soluzione più semplice, a valori economici invariati, potrebbe essere quella secondo la quale il giudice decide l’ammontare dell’indennità compresa tra sei e trentasei mensilità, basandosi sui criteri già individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 e ripresi, da ultimo, dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970 (anzianità di servizio, numero di dipendenti occupati nell’azienda, dimensioni dell’attività economica, comportamento tenuto dalle parti durante la controversia e loro condizioni). Se così sarà (ma è, assolutamente, prematuro parlarne) si potrebbe avere, in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, nelle imprese con più di quindici dipendenti, una indennità maggiore per un assunto “con le tutele crescenti” (fino a trentasei mesi) che pur un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 (fino a ventiquattro mesi).

Per completezza di informazione va ricordato come, per effetto della previsione contenuta nell’art. 1 del D.L.vo n. 23/2015 rientrino nel campo di applicazione correlato alla indennità risarcitoria:

  • tutti gli assunti (operai, impiegati e quadri ma non i dirigenti) a partire dalla data sopra indicata;
  • i lavoratori delle piccole imprese e delle associazioni di tendenza che, pur assunti prima del 7 marzo 2015, hanno visto salire l’organico dimensionale del proprio datore di lavoro oltre la soglia delle quindici unità;
  • i lavoratori con contratto a tempo determinato, assunti prima del 7 marzo 2015, ma trasformati con rapporto a tempo indeterminato dopo tale data;
  • gli assunti con contratto di apprendistato professionalizzante prima del 7 marzo 2015 ma che hanno visto il proprio rapporto “consolidato” al termine del periodo formativo;

Una attenta lettura del comunicato fa trasparire il “salvataggio” dell’indennità risarcitoria compresa tra un minimo ed un massimo (la remissione alla Corte da parte del Giudice di Roma riguardava gli importi compresi, allora tra quattro e ventiquattro mensilità), ora aumentata per effetto del c.d. “Decreto Dignità”.

Come dicevo, occorrerà leggere bene le motivazioni che, stando al comunicato della Consulta, non dovrebbero toccare l’indennità risarcitoria relativa ai datori di lavoro con un organico inferiore alle sedici unità ed alle “associazioni di tendenza” ove i nuovi valori, strettamente legati all’anzianità aziendale, sono ora, dopo le modifiche intervenute, pari ad una mensilità all’anno calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, partendo da una base di tre, fino a sei mensilità: ovviamente, in questi casi, l’indennità risarcitoria, tra il minimo ed il massimo, potrebbe essere oggetto di decisione da parte del giudice.

E’ appena il caso di sottolineare come la decisione della Corte Costituzionale riguardi soltanto il comma 1 dell’art. 3: ciò significa che gli assunti con le “tutele crescenti” continueranno a fruire della reintegra nelle ipotesi previste dall’art. 2 (licenziamento nullo per violazione di legge, discriminatorio, orale o ritorsivo, per mancanza del motivo nei confronti dei portatori di handicap o nel recesso disciplinare – art. 3, comma 2 – allorquando nel giudizio venga dimostrata la insussistenza del fatto materiale contestato al dipendente).

La dichiarazione di incostituzionalità, avrà effetto anche sui licenziamenti collettivi ex art. 10 concernenti i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015. Per costoro, l’applicazione, pedissequa, dei valori risarcitori, determinati con il criterio dell’anzianità, salta e, di conseguenza, fermo restando che per i lavoratori assunti prima della data sopraindicata e con una decisione di reintegra (perché, ad esempio, sono stati errati i criteri di scelta), c’è la reintegra, con il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione dal momento della cessazione fino al rientro, con la possibilità per gli stessi di esercitare il c.d. “opting out” (risoluzione del rapporto) previo pagamento di quindici mensilità, per gli altri il giudice definirà l’importo risarcitorio all’interno della “forbice” compresa tra le sei e le trentasei mensilità.

Le novità potrebbero riverberarsi anche sull’art. 7 del D.L.vo n. 23/2015 ove il criterio della liquidazione dell’indennità spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo è legata all’anzianità acquisita nell’appalto (e non presso l’ultimo datore): tale criterio, essendo l’unico, potrebbe essere integrato, nella valutazione del giudice dagli altri che fanno riferimento al comportamento tenuto dalle parti durante la controversia, dall’ampiezza dell’azienda e dal contesto sociale.

L’attesa del deposito della sentenza, presumibilmente, porterà alla sospensione dei procedimenti giudiziari pendenti non soltanto in primo grado ma anche in appello. Tale sospensione, del resto già preannunciata da molti presidenti delle sezioni Lavoro, potrebbe comportare, alla ripresa, alcune questioni non secondarie, come una indicazione, da parte del lavoratore ricorrente, di una serie di elementi ulteriori finalizzati alla quantificazione dell’indennità. Se questi sono stati già evidenziati nel ricorso non c’è problema ma se ciò non è avvenuto (perché non necessari ai fini della vecchia normativa) potranno essere dedotti dal momento che viene esclusa la possibilità di indicare, nel processo, nuove circostanze o prove?

E chi ha chiesto la condanna del datore di lavoro al pagamento della indennità già predeterminata ex art. 3, comma 1, potrà modificare la domanda alla luce della sentenza della Corte Costituzionale?
Gli effetti della decisione della Corte Costituzionale, preannunciata dal comunicato del 26 ottobre, si riverbereranno anche sull’offerta conciliativa facoltativa ex art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 in quanto gli importi, seppur non soggetti a tassazione IRPEF, per quanto aumentati con la legge di conversione n. 96, perdono il loro “appeal” in quanto il lavoratore, assunto con le “tutele crescenti” da un impresa con più di quindici dipendenti, in caso di ricorso al giudice del lavoro non sarà più legato al mero criterio dell’anzianità aziendale (il valore, in caso di conciliazione, risulta “strutturato” sulla metà degli importi previsti ex art. 3, comma 1, pur se esenti da IRPEF), in quanto, prevedibilmente, potrebbe ottenere un importo di molto superiore a quello ora previsto dalla norma. Tale mancanza di “gradimento” che, sicuramente (a meno che i valori non vengano ulteriormente aumentati dal Legislatore) si rifletterà negativamente sull’effetto deflattivo del contenzioso ed, inoltre, i datori di lavoro difficilmente, potranno “chiudere” con i lavoratori interessati altre questioni afferenti l’intercorso rapporto di lavoro (straordinari contestati, differenze paga, c0mpetenze di fine rapporto, ecc.) che, possono essere risolte “a latere” con un altro accordo che “si realizza” accanto a quello principale.

La sentenza non dovrebbe toccare, “il gradimento” per gli importi, di molto minori, previsti per la conciliazione facoltativa presso i piccoli datori di lavoro e le associazioni di tendenza, atteso che le differenze economiche restano minime e la possibilità di ottenere il “quantum” esente da IRPEF subito, senza attendere l’alea del giudizio, conserva il proprio “appeal”.

Ma, cosa afferma, il nuovo testo “nato” dagli “aggiustamenti” avvenuti durante la discussione parlamentare?

Con un emendamento in sede di conversione è stato, giustamente, rivisto anche l’importo della offerta conciliativa facoltativa ad accettazione del licenziamento, prevista dall’art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015, ove i valori delle somme, esenti da IRPEF, correlati all’anzianità aziendale (data di assunzione e data di licenziamento risultanti dalle comunicazioni obbligatorie), sono stati aggiornati: prima si parlava di una mensilità all’anno, calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, partendo da una base di due, fino ad un massimo di diciotto e tali valori erano ridotti alla metà (mezza mensilità all’anno partendo dalla base di una) per i datori di lavoro individuati all’art. 9 ai quali si è fatto cenno pocanzi, con un tetto massimo fissato a sei mensilità. Ora, ferma restando la base di partenza ad una mensilità, l’importo minimo non può essere inferiore alle tre mensilità, con un tetto massimo, sempre correlato all’anzianità aziendale, che non può superare le ventisette mensilità.

Per le piccole imprese e le associazioni di tendenza ove i valori sono ridotti della metà con la base di partenza sempre mezza mensilità, ma l’importo minimo è, ora, non più fissato ad una mensilità, ma ad una mensilità e mezza, fermo restando il tetto massimo di sei.

Considerazioni finali sull’indennità risarcitoria
Negli ultimi due mesi, per effetto prima dei contenuti del D.L. n. 87/2018 in materia di contratti a tempo determinato e di somministrazione a termine e, poi, della preannunciata sentenza della Consulta, il diritto del lavoro ha subito profondi cambiamenti.

L’idea centrale contenuta in diversi provvedimenti del c.d. “Jobs act”, secondo la quale le assunzioni a termine, senza l’apposizione di alcuna causale, per un periodo massimo di trentasei mesi (ma la contrattazione collettiva poteva individuarne anche uno maggiore) con la successiva possibile trasformazione a tempo indeterminato, magari accompagnata da corposi incentivi (si pensi, all’esonero triennale, a quello biennale ed al comma 107 dell’art. 1 della legge n. 205/2017) e la possibilità, comunque, con la sola eccezione della casistica individuata all’art. 2 del D.L.vo n. 23/2015, di poter procedere al recesso con un “costo certo”, perché legato alla mera anzianità aziendale, è “sostanzialmente andata in soffitta”.

Il contratto a tempo determinato, senza alcuna causale, può durare, al massimo, dodici mesi e le condizioni legali necessarie per una prosecuzione fino a ventiquattro mesi, senza alcuna possibilità per le parti sociali di prevederne di diverse, appaiono di difficile applicazione (ad eccezione di quelle di natura sostitutiva). Ciò imporrà strategie diverse a quelle imprese che, magari, puntando sulla formazione in azienda, avevano un tempo diverso e più lungo per operare le loro scelte. Ciò potrebbe portare, in molteplici ipotesi ad un “turn over della precarietà”, con lavoratori che si avvicendano ogni dodici mesi all’interno delle strutture aziendali. Le stesse scelte operate con la somministrazione a termine non aiutano.

La sentenza della Corte Costituzionale, ritenendo incostituzionale il solo criterio dell’anzianità ai fini della determinazione dell’indennità risarcitoria, fa venir meno il “costo certo” del licenziamento, dipendendo lo stesso dalle valutazioni, ben motivate, di un giudice terzo (ed ora, l’ampiezza della valutazione tra sei e trentasei mensilità appare, obiettivamente, alta se rapportata a quella inserita nell’art. 18 della legge n. 300/1970, dopo la riforma avvenuta con la legge n. 92/2012). La questione potrebbe avere effetti alquanto “pesanti” per quei datori di lavoro che, approfittando anche delle norme agevolatrici, hanno superato, sia pure di poco, la soglia fatidica dei quindici dipendenti e che, solo per tale ragione, sono passati da una indennità che, al massimo, può raggiungere le sei mensilità fino a quella nuova ove il tetto massimo non più raggiungibile con la sola anzianità) viene fissato in trentasei mensilità.

Ma, come detto, all’inizio di questa riflessione, attendiamo con fiducia di leggere le motivazioni della sentenza.



Fonte : Dottrina Lavoro