Con la sentenza n. 118 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del tetto massimo delle sei mensilità per l’indennità dovuta dalle piccole imprese che recedono illegittimamente dal contratto di lavoro con un proprio dipendente. La Consulta osserva che la tutela indennitaria rispetto alla reintegra nel posto di lavoro deve essere adeguata e deve essere tale da consentire al giudice di poter modulare l’indennità sulla base di molteplici elementi: numero degli occupati, settore, anzianità di servizio dell’ex dipendente e comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio. Tale decisione, ovviamente, potrà comportare effetti diretti nelle decisioni dei giudici di merito ed anche sulle trattative che si svolgono presso le sedi di conciliazione. In quale modo? La sentenza della Corte Costituzionale n. 118 del 21 luglio 2025 con la quale è stata rideterminata la disposizione che regola l’indennità dovuta dalle piccole imprese che recedono illegittimamente dal contratto di lavoro con un proprio dipendente, non è giunta inaspettata in quanto già con la decisione n. 183/2022 se ne potevano comprendere, sia pure in linea di massima, i contenuti.
Infatti, allora, la Consulta aveva rinviato la decisione dando tempo al Parlamento di legiferare in materia, atteso che la definizione di piccolo datore di lavoro, basata soltanto sul criterio numerico dei lavoratori in forza, non era più sufficiente ad individuare il campo di applicazione.
Il quadro normativo, nel corso degli anni, è cambiato in misura radicale, in quanto piccole imprese, con un numero limitatissimo di personale dipendente (perché magari, altri sono collaboratori o lavoratori con partita IVA), operanti nella ricerca, nell’informatica e nella gestione dei sistemi, nascono e crescono continuamente presentando fatturati di milioni e bilanci attivi ed hanno una disponibilità economica ben maggiore, ad esempio, del piccolo artigiano con un paio di dipendenti. Sono trascorsi quasi tre anni ma il Legislatore non ha fatto nulla e, di conseguenza, la Corte è intervenuta, come, del resto, aveva preannunciato nella sentenza del 2022, nei limiti, ovviamente, stretti, entro i quali poteva intervenire.
L’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 118/2025
Il campo di applicazione potenziale della sentenza è molto ampio, sol che si pensi che, secondo la rilevazione ISTAT relativa all’anno 2023, sono circa 805.000 i datori di lavoro che non superano la soglia dei quindici dipendenti ed, inoltre, è bene ricordarlo, l’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 sul quale è intervenuta la Consulta, trova applicazione anche nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che, senza fine di lucro, svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di culto o di religione. Di conseguenza, i lavoratori che potrebbero, teoricamente, essere interessati dalla disposizione innovata con la sentenza, sono milioni.
Ma quale è stata la decisione adottata con la sentenza n. 118?
E’ stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole “e non può, in ogni caso, superare il limite delle sei mensilità”.
La sentenza, nasce da un ricorso del Tribunale di Livorno con il quale veniva contestata la tutela monetaria indennitaria dimezzata, contenuta nel predetto articolo, rispetto a quella prevista per le imprese dimensionate oltre i 15 dipendenti, che consisteva in una forbice alquanto ridotta compresa tre e sei mensilità, palesemente in contrasto con i principi di ragionevolezza, di uguaglianza (più volte alla base di decisioni della Consulta in materia di lavoro) e, perché no, anche di deterrenza nei confronti del datore di lavoro, concretandosi, nella maggior parte dei casi, in una sorta di indennità forfettaria concessa in forma, quasi automatica.
La disparità con i datori di lavoro che occupano un numero di dipendenti maggiore (da sedici in su) è evidente, atteso che il licenziamento illegittimo è punito con una indennità risarcitoria compresa tra sei e trentasei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, con una forbice ben diversa, rispetto alla quale il giudice può ben operare tenendo conto anche dei criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966.
All’inizio del “considerato in diritto” la Corte Costituzionale ricorda chi sono i potenziali destinatari dell’indennizzo risarcitorio: essi sono i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che non raggiungono i requisiti occupazionali stabiliti dal comma 8 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (non più di quindici dipendenti presso l’’unità produttiva considerata o in ambito comunale e che comunque non superano i sessanta su tutto il territorio nazionale e quelli agricoli che occupano fino a quattro dipendenti).
La Corte osserva che il Legislatore può ben scegliere, come ha fatto e come ne ha confermato la legittimità la sentenza n. 196 del 2018, la tutela indennitaria rispetto alla reintegra nel posto di lavoro, ma questa deve essere adeguata e deve essere tale da consentire al giudice, in un momento della vita, particolarmente duro per il lavoratore che ha perso il proprio posto di lavoro a seguito di un recesso illegittimo, di poter modulare l’indennità sulla base di molteplici elementi come, il numero degli occupati, il settore, l’anzianità di servizio dell’ex dipendente, il comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio (sono, nella sostanza, quelli evidenziati dall’art. 8 della legge n. 604/1966): le casistiche che si presentano sono diverse ed articolate e, quindi, è necessario personalizzare e graduare l’indennità in relazione al danno subito.
La Consulta ritiene coerente e non incostituzionale il dimezzamento della indennità per risarcimento da licenziamento illegittimo, ma al tempo stesso, ritiene che il tetto massimo di sei mensilità sia particolarmente incongruo in una serie di casi ove la tutela economica per i lavoratori delle altre aziende è decisamente superiore.
La lesione dei parametri costituzionali con l’identificazione del tetto massimo a sei mensilità non consente di adeguare l’importo alla specificità di ogni singola vicenda (non tutti i recessi intimati dai datori di lavoro sono uguali) e lo stesso criterio che distingue le aziende contando, soltanto, il numero dei dipendenti (fino a quindici od oltre tale limite) non è più attuale sol che si pensi all’incessante evoluzione tecnologica e alla trasformazione dei processi produttivi ove nascono e crescono aziende che fatturano milioni e hanno un numero di lavoratori subordinati abbastanza esiguo ; è un fenomeno questo che si registra ogni giorno e che, presumibilmente, è destinato ad aumentare con l’introduzione sempre più massiccia dell’Intelligenza Artificiale.
Su quest’ultimo aspetto i giudici costituzionali non possono intervenire, atteso che la materia è di esclusiva competenza del Legislatore: da ciò discende un nuovo pressante invito che la sentenza n. 118 rivolge al Parlamento, chiedendo, nuovamente, come già fatto con la sentenza n. 183/2022, l’introduzione di disposizioni finalizzate a ridisegnare il regime speciale previsto per i piccoli datori di lavoro, a partire dalla stessa individuazione dei criteri di identificazione che non possono essere soltanto quelli relativi al numero dei dipendenti in forza, cosa che, nel nostro ordinamento si è cominciato a fare con la riforma delle procedure concorsuali previste dalla legge n. 80/2005 e con il codice della crisi di impresa, disciplinato dalla legge n. 155/2017 e che, a livello comunitario, ha trovato nella Direttiva n. 2023/2775 gli spunti per un adeguamento dei criteri per la definizione delle micro imprese, delle piccole imprese e delle medie e grandi imprese.
Definizione di ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR
Per completezza di informazione ritengo opportuno riepilogare cosa si intende per ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR che va tenuta presente nella individuazione della indennità da corrispondere.
L’art. 2120 c.c. stabilisce che nella retribuzione vanno calcolate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura, i ratei delle mensilità aggiuntive e le indennità corrisposte in maniera continuativa (ad esempio, cassa, cuffia, trasferta o trasfertismo se costituiscono una stabile componente della retribuzione, alloggio se sussiste una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa, ecc.): restano escluse le somme dovute a titolo di rimborso spese.
Il Tribunale di Livorno aveva, altresì, ritenuto non manifestamente infondata la illegittimità del dimezzamento previsto dal comma 1 dell’art. 3 (licenziamento per giustificato motivo, oggettivo, soggettivo o giusta causa), dal comma 1 dell’art. 4 (vizi formali e procedurali) e dal comma 1 dell’art. 6 (offerta di conciliazione) ma la Corte ha ritenuto che, in ogni caso, la forbice, seppur ridotta, fosse sufficiente per poter decidere sulla specificità di ogni singola vicenda.
E’ quindi, soltanto il comma 1 dell’art. 9 che viene, in parte, cassato dai giudici costituzionali: l’eliminazione del tetto massimo ma non del dimezzamento fa sì che la tutela indennitaria sia compresa all’interno di una fascia che va dalle tre alle diciotto mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR (è, esattamente la metà di quella prevista per le imprese più grandi dall’art. 3, comma 1), in quanto il ristoro può essere limitato ma non sacrificato per la logica del contenimento dei costi, perchè si è, pur sempre, di fronte ad un licenziamento illegittimo che, pur nel contesto delle piccole aziende, resta un atto illecito, come ricorda la sentenza n. 150 del 2020.
Gli impatti della sentenza
Tale decisione, ovviamente, potrà comportare effetti diretti nelle decisioni dei giudici di merito ma, a mio avviso, avrà effetti anche sulle trattative che si svolgono presso le sedi di conciliazione.
Già nel breve periodo, infatti, la decisione potrebbe riverberarsi sui tentativi di conciliazione riguardanti i licenziamenti nelle piccole aziende che si svolgono, ad esempio, avanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato del Lavoro, oppure in sede sindacale o avanti ad un organismo di certificazione. Qui il tetto di sei mensilità nelle richieste dei lavoratori, assistiti dal loro sindacato o da un professionista, non sarà più rispettato e, sicuramente, si assisterà a richieste molto più cospicue, alla luce della nuova formulazione dell’art. 9, comma 1.
Personalmente ritengo che anche il tentativo facoltativo di conciliazione sul licenziamento, già avvenuto, previsto dal comma 1 dell’art. 6, che va richiesto dal datore entro i sessanta giorni successivi al recesso, ove l’indennità risarcitoria per le piccole imprese, è di ½ mensilità all’anno e comunque non inferiore ad una per ogni anno di servizio fino ad un massimo di sei, non imponibile ai fini dell’IRPEF e non soggetta a contribuzione previdenziale, (le ulteriori mensilità eventualmente erogate non godono di alcun beneficio fiscale), perderà la residua convenienza per l’ex dipendente, potendo essere preferibile seguire la via giudiziale, soprattutto se il licenziamento è caratterizzato da una palese illegittimità.
Eufranio Massi
31 Luglio 2025
Fonte : WOLTERS KLUWER – Ipsoa Lavoro