Il preavviso, istituto “consolidato” nel nostro codice civile all’art. 2118, ha una specifica funzione:
la parte che recede dal rapporto deve, in via generale (con le eccezioni di cui parlerò tra poco) rispettare un periodo nel quale il rapporto continua fino al momento in cui lo stesso cessa per effetto della risoluzione unilaterale del contratto. Il significato è evidente: si vuole evitare che la cessazione immediata rechi danno all’altro contraente.
Tale principio ha una conseguenza evidente: il rapporto continua regolarmente cosa che comporta, ad esempio, che il lavoratore deve rispettare i contenuti tipici scaturenti dal contratto come la fedeltà, la diligenza e la subordinazione, che il datore di lavoro continua ad esercitare il proprio potere direttivo e disciplinare, che il dipendente ha diritto ad eventuali scatti economici derivanti dall’applicazione del CCNL o dal rinnovo dello stesso. La durata del periodo viene determinata dalla contrattazione collettiva la quale lo determina, in maniera diversa, secondo la categoria legale di inquadramento, secondo l’anzianità e, talora, anche in relazione alla motivazione alla base del recesso (licenziamento o dimissioni). Mancando le determinazioni contrattuali (ma la questione, a mio avviso, appare del tutto marginale) occorre riferirsi per i soli impiegati (direttivi, di concetto e tecnici) all’art. 10 del R.D. n. 1825/1924 che ne fissa la durata in relazione all’anzianità di servizio ed al livello, mentre per gli operai nulla si afferma se non che in mancanza di CCNL il parametro di riferimento si rinviene negli usi o nell’equità. Il preavviso, essendo un atto unilaterale ricettizio, decorre dal momento in cui viene a conoscenza dell’altra parte: è la contrattazione collettiva che determina le modalità di computo (e, quindi, nella gran parte dei casi non ci sono problemi), ma la mancanza di uno specifico criterio fa sì che, secondo la giurisprudenza, il computo si effettui secondo lo “scorrere del calendario” e non dei giorni lavorativi.
Ma, quali sono le ipotesi in cui, in caso di risoluzione del rapporto, viene meno l’obbligo del preavviso?
Si tratta di fattispecie ben determinate dall’ordinamento che possono così sintetizzarsi:
La parte che non intende rispettare il periodo di preavviso è, come è noto, tenuta a corrispondere una indennità sostitutiva per il cui computo occorre far riferimento, essenzialmente, all’art. 2121 c.c.. Essa viene calcolata avendo quale riferimento la retribuzione normalmente spettante al dipendente nel momento in cui si sostanzia, concretamente, la volontà di recedere dal rapporto. Nel computo vanno anche compresi, i ratei delle mensilità aggiuntive, i premi di produzione o di risultato, le indennità sostitutive aventi carattere continuativo, le provvigioni o le partecipazioni agli utili, con esclusione dei rimborsi spese. Qualora il lavoratore sia retribuito in tutto o in parte con provvigioni, partecipazioni o premi di produzione, l’indennità sostitutiva viene determinata attraverso il calcolo medio riferito all’ultimo triennio o al periodo minore se il rapporto ha avuto una durata inferiore.
Ricordo che l’indennità sostitutiva deve essere computata nel TFR e, come afferma l’INPS sin dal 1992, con la circolare n. 211, è assoggettabile alla contribuzione previdenziale.
Come dicevo pocanzi, non è obbligatorio lavorare il periodo di preavviso e lo stesso datore di lavoro può esonerare il dipendente dal prestarlo, pagando la relativa indennità. Parimenti, se il lavoratore decide di “non lavorarlo” (anche parzialmente) è tenuto a corrispondere la relativa indennità, strettamente correlata alla mancata prestazione.
L’indennità sostitutiva del preavviso è dovuta dal datore di lavoro anche nel caso in cui il lavoratore si rioccupi immediatamente dopo la cessazione del rapporto avvenuto con il licenziamento, come ricorda la Cassazione con la sentenza n. 9195 del 7 giugno 2012.
Le disposizioni relative alla indennità sostitutiva del preavviso ne impongono la corresponsione, in alcuni casi ben determinati:
Come dicevo, l’indennità sostitutiva del preavviso riguarda ambedue le parti contraenti il rapporto di lavoro. Se, quindi è il dipendente a dimettersi senza rispettare il preavviso lo stesso deve corrispondere una indennità per il periodo non lavorato che costituisce una sorta di “penale” di natura risarcitoria per la mancata prestazione. Essa, in genere, viene trattenuta con la compensazione su altre somme dovute.
Passo, ora, ad esaminare gli effetti del preavviso o della relativa indennità sostitutiva sulla c.d. “parte previdenziale ed assicurativa”
Con le circolari n. 14/1992 e n. 170/1990 l’INPS ha affermato che l’indennità sostitutiva del preavviso rileva, ai fini dell’imponibile contributivo: essa va giunta all’ultimo periodo di paga ma attribuita, ai fini dell’accredito contributivo sulla posizione del dipendente, al periodo al quale si riferisce (circolare INPS n. 263/1997). Le ipotesi possono, così riassumersi:
Passo, ora, ad esaminare il rapporto tra gli assegni familiari ed il preavviso non lavorato, ricordando che le norme di riferimento si possono trovare sia nel DPR n. 797/1955 che nella circolare INPS n. 110/1992.
Essi spettano in aggiunta all’indennità in una sola soluzione per un periodo massimo di tre mesi o, comunque, nei limiti minori di spettanza, mentre non spettano nel caso in cui l’indennità sostitutiva venga corrisposta agli eredi del lavoratore deceduto.
Mi sembra interessante, inoltre, soffermarmi, brevemente, sul rapporto tra periodo di preavviso e malattia. Ovviamente, se l’evento avviene durante il “periodo lavorato” vi è la sospensione dello stesso, con ripresa del decorso fino al rientro in azienda o fino alla scadenza del periodo di comporto. Tale discorso vale anche per l’infortunio o la maternità.
Se, invece, il periodo viene “pagato” con l’indennità sostitutiva (il tutto, prima dell’evento morboso) il rapporto si considera risolto e qualunque diritto dell’ex dipendente viene meno.
La corresponsione dell’indennità di mancato preavviso ha effetti, almeno per i termini temporali per la presentazione del’istanza, anche ai fini della fruizione della NASPI, secondo le previsioni contenute nell’art. 6, comma 1, del D.L. vo n. 22/2015 e della circolare INPS n. 94/2015).
Come è noto, la regola generale prevede che il termine di decadenza per la domanda sia fissato a 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Ebbene, esso decorre, nel caso appena evidenziato, dalla data di fine del periodo corrispondente all’indennità, correlato alle giornate.
Passo, infine, ad esaminare una questione pratica che, spesso, affligge gli operatori: mi riferisco alle dimissioni telematiche presentate dal lavoratore secondo la procedura prevista ove lo stesso, computando il periodo di preavviso, sbaglia a indicare la data di cessazione del rapporto.
A mio avviso, il problema va risolto alla luce del significato che ha la procedura telematica: essa ha una sola funzione che è quella di fare in modo che l’interessato presenti le proprie dimissioni, senza alcuna costrizione, indicando una data “certa” di cessazione del rapporto. Evidentemente, se lo stesso ha calcolato male il periodo (nel senso che, ad esempio, ha indicato un periodo più breve o più lungo rispetto a quello individuato dal CCNL) non c’è alcun problema in quanto, nel primo caso, si avrà un periodo “lavorato” ridotto ed il datore di lavoro, se lo vorrà, potrà trattenerne una parte dalle competenze finali, se, invece, è più lungo, esso terrà conto di una data di inizio che slitterà: ovviamente, resta sempre in piedi il discorso dell’esonero dalla prestazione lavorativa.