Contratti a termine e nuove causali: problemi operativi e possibili soluzioni

31 Maggio, 2023   |  
L’art. 24 del decreto Lavoro (D.L. n. 48/2023) ha operato una profonda modifica al testo normativo sui contratti a tempo determinato, riscrivendo le causali, introdotte attraverso il decreto Dignità, ma lasciando inalterati gli altri articoli che lo disciplinano all’interno del D.L.vo n. 81/2015.
Prima di entrare nel merito di alcune questioni tecniche che riguardano le nuove condizioni, ritengo doveroso sottolineare come il “periodo acausale” sia rimasto del tutto invariato. Il primo contratto a termine, per una durata massima di 12 mesi, raggiungibile anche attraverso proroghe, non necessita della apposizione di alcuna condizione che, ovviamente, è invece, necessaria allorquando pur essendo le parti all’interno dei primi 12 mesi, si procede ad un rinnovo (ossia ad un nuovo contratto tra le parti): infatti la norma prevista al primo comma dell’art. 21 è rimasta del tutto identica al passato.
La ragione principale che ha spinto l’Esecutivo a cancellare, sostanzialmente, le condizioni previste dalla riforma del 2018, sono state quelle di eliminare alcune rigidità che impedivano un utilizzo dei contratti a termine oltre la soglia del primo anno, con la sola eccezione dei rapporti nati per sostituzione di lavoratori assenti.

Delega alla contrattazione collettiva

La scelta adottata dal Governo appare, per certi versi, un ritorno al passato, a quel passato che, con il D.L.vo n. 368/2001, aveva dato ampio spazio alle causali frutto della contrattazione collettiva per esigenze di natura tecnica, produttiva ed organizzativa. Se andiamo a vedere, infatti, che per le nuove causali si afferma, sostanzialmente, il principio della sussistenza di una ampia delega alla contrattazione collettiva a qualsiasi livello.
Recita, infatti, il nuovo comma 1 dell’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015 che, superata la soglia dei 12 mesi anche attraverso proroghe, il contratto a tempo determinato è possibile:
a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51;
b) in assenza della previsione della contrattazione collettiva di cui alla lettera a), per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti, e in ogni caso entro il 30 aprile 2024;
c) in sostituzione di altri lavoratori.
L’elencazione sopra richiamata affida, quindi, una ampia delega alla contrattazione collettiva, di ogni livello (quindi, anche aziendale) la possibilità di individuare le condizioni da apporre al contratto a termine (o alla somministrazione, attesa, sul punto, la sostanziale unicità della normativa) una volta superata la soglia dei 12 mesi: ovviamente, la delega normativa non è destinata a tutte le sigle sindacali (datoriali e dei lavoratori) indistintamente, ma soltanto a quelle che risultano, nel settore, comparativamente più rappresentative a livello nazionaleterritoriale o alle “loro” RSA o alla RSU.

Problemi operativi e possibili soluzioni

In ordine a quanto affermato dalla lettera a), sotto l’aspetto puramente operativo si pongono alcuni problemi rispetto ai quali provo a dare una risposta.
Il primo concerne la possibilità che alcuni contratti collettivi, in corso di validità, abbiano già disciplinato la materia: essi rimangono del tutto validi. Leggermente diversa si può presentare la questione degli accordi sottoscritti per condizioni ben specifiche in ossequio alla disposizione già contenuta nella lettera b-bis) ora abrogata dalla nuova declinazione normativa. La risposta più semplice sarebbe quella secondo la quale tali indicazioni non sarebbero più valide in quanto “espunte” dall’ordinamento. A mio avviso, invece, si può ben sostenere la continuità della loro vigenza (a meno che negli accordi stessi non fosse stata inserito un termine di decadenza), atteso che le nuove disposizioni, affidando una delega ampia alle parti sociali “qualificate”, hanno voluto affermare la centralità delle pattuizioni collettive di cui, appunto, gli accordi stessi, sottoscritti ex lettera b-bis) sono la più chiara espressione. Sul punto, comunque, sarebbe opportuno un chiarimento di prassi da parte del Ministero del Lavoro.
Altra questione che potrebbe presentarsi riguarda la contemporanea presenza di contratti collettivi a vari livelli (nazionale ed aziendale) che disciplinano le causali in maniera diversa. Quale seguire? A mio avviso, la risposta, anche tenendo conto di alcuni indirizzi giurisprudenziali, sarebbe quella di offrire una sorta di preferenza agli accordi aziendali in corso di validità, che sono più vicini ai problemi operativi e gestionali.
Ma se la contrattazione collettiva (passo, quindi, all’esame della lettera b) nulla afferma in proposito, il datore può individuare (la norma dice “le parti” ma, francamente, ritengo che il lavoratore non possa avere la capacità di individuare le causali aziendali) le esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva alla base della motivazione del contratto a termine che intende instaurare. Si tratta di una norma non strutturale, ma a tempo, destinata a cessare il 30 aprile 2024 e va intesa come una sorta di apertura di credito in favore delle organizzazioni sindacali affinchè adempiano alla delega normativa in tempi abbastanza rapidi. Ovviamente, aver fissato la data del 30 aprile 2024 significa anche che i contratti e le proroghe con causale concordati, stipulati entro tale giorno, possono dispiegare i propri effetti anche in data successiva.
Per questa causale, ma anche per la prima, si pone, a mio avviso, la necessità di declinare le casistiche e le esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva: il rischio, infatti, è quello di incorrere, in caso di contenzioso giudiziale, nell’annullamento del contratto a termine e nella sua conversione in contratto a tempo indeterminato. L’esperienza delle decisioni che si verificarono sotto la vigenza del D.L.vo n. 368/2001 è sotto gli occhi di tutti gli operatori. Di conseguenza, nel momento in cui si sceglie di inserire una specifica condizione, sarà necessario chiarire per iscritto, in modo chiaro e comprensibile, le ragioni che si ravvisano per l’apposizione della causale (acquisizione di una commessa imprevista, punta di stagionalità non prevista determinata ad un afflusso considerevole di ordini, ecc.).
Per quel che riguarda, invece, l’ultima casistica individuata, la disposizione afferma che è possibile in sostituzione di altri lavoratori: “norma larga” che consente il contratto a termine in sostituzione di un lavoratore assente, per qualsiasi ragione, anche, ad esempio, per distacco temporaneo o in trasferta. Ovviamente, tale disposizione non supera i divieti posti dall’art. 20 del D.L.vo n. 81/2015, cosa che comporta, quale sanzione, la conversione, ex lege, del rapporto in contratto a tempo indeterminato.

Casi in cui non è possibile stipulare contratti a tempo determinato

Per completezza di informazione ricordo quali sono i casi in cui non è mai possibile stipulare contratti a tempo determinato:
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, che è un diritto costituzionale;
b) presso unità produttive nelle quali si è proceduto, nei 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ex articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato, a meno che il contratto non sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (pressochè scomparsi, atteso che dal 1° gennaio 2017 sono state abolite le liste ordinarie di mobilità), o abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi (norma che, nella sostanza, attutisce il divieto);
c) presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni (ordinaria e straordinaria, ma anche interventi integrativi previsti dal FIS, dai Fondi bilaterali e da quelli, anche intersettoriali, previsti dall’art. 40 del D.L.vo n. 148/2015), che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato;
d) da parte dei datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Fonte: WOLTERS KLUWER – Ipsoa Lavoro



Fonte : Studio Balillo