Un’analisi approfondita delle novità sulla conciliazione facoltativa nelle tutele crescenti dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018.
Nel quadro della riforma sulle tutele in materia di licenziamento previste dal D.L. vo n. 23/2015, non poteva mancare la possibilità, sia pure facoltativa, offerta alle parti di concludere la “controversia” sul recesso: ciò è avvenuto, ipotizzando l’iter di conciliazione abbastanza veloce e, per certi versi, nuovo e che, tuttavia, già nella formulazione della norma, presentava alcune criticità.
Rispetto al quadro normativo del 2015 sono intervenute, nel frattempo, alcune novità: il D.L. n. 87/2018 ha variato gli importi indennitari e la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, intervenendo sulla indennità risarcitoria in caso di licenziamento unicamente correlata all’anzianità aziendale, ritenendola incostituzionale, ha, indirettamente, fatto perdere molto “appeal” alla conciliazione facoltativa relativa ai dipendenti licenziati da imprese dimensionate oltre le 15 unità.
Prima di entrare nel merito della riflessione, ritengo opportuno sottolineare le novità intervenute nel corso del 2018.
Con l’art. 3, comma 1-bis, del D.L. n. 87/2018 convertito, con modificazioni, nella legge n. 96 è stato stabilito che il datore di lavoro può offrire nella conciliazione facoltativa un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’IRPEF e non assoggettato ad alcun contributo previdenziale pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura, comunque, non inferiore a tre (prima erano due) e non superiore a ventisette mensilità (prima erano diciotto). Per i datori di lavoro che non raggiungono i limiti dimensionali dei sedici dipendenti l’ammontare delle somme sopra indicate (art. 9 del D.L. vo n. 23/2015) è dimezzato e, in ogni caso, non può superare il limite delle sei mensilità.
La sentenza della Consulta n. 194/2018, invece, occupandosi dell’art. 3, comma 1, ha affermato che l’indennità risarcitoria legata alla sola anzianità aziendale, seppur importante, può essere integrata dal giudice sulla base dei criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti dell’impresa, contesto socioeconomico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.). Di conseguenza, il licenziamento illegittimo non ha più un costo fisso e predeterminato ma può variare, per le imprese dimensionate sopra le quindici unità, fino ad un massimo di trentasei mensilità, partendo da una base non inferiore alle sei, secondo la nuova previsione contenuta nel D.L. n. 87/2018 all’art. 3.
La possibilità di ricorrere in giudizio e, magari, nelle more dello stesso, raggiungere una conciliazione con importi economici ben superiori a quelli che, ad accettazione del licenziamento, può ottenere aderendo all’offerta conciliativa (il valore è prefissato dalla norma), può senz’altro, spingere il lavoratore a non accettare la stessa ed a percorrere strade diverse, tenendo anche conto delle possibilità (art. 2), peraltro già presente nel quadro normativo, legata alle reintegra qualora venga dimostrata, ad esempio, la nullità del licenziamento nei casi previsti dalla legge, il suo carattere discriminatorio o ritorsivo, l’inefficacia, o l’assenza di giustificazione della disabilità nel portatore di handicap: in questo senso il “gradimento” della conciliazione facoltativa sembra, in gran parte, scemato.
Un effetto della scelta compiuta dal Legislatore è la fine della procedura obbligatoria prevista nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dall’art. 7 della legge n. 604/1966 (resta soltanto per i lavoratori assunti nelle imprese con un organico superiore alle quindici unità, entro il 6 marzo 2015).
Passo, ora, ad esaminare la disposizione e ad evidenziare gli aspetti positivi ma anche le forti criticità che, negli oltre quattro anni di vigenza della norma, non hanno avuto neanche l’onore di qualche chiarimento amministrativo da parte del Ministero del Lavoro.
Il datore di lavoro, nei sessanta giorni successivi al licenziamento, può, di propria iniziativa offrire al lavoratore in una sede protetta (commissione provinciale di conciliazione – 410 cpc -, sede sindacale – 411 cpc -, organismi di certificazione – con commissioni costituite presso Enti bilaterali, Province, Ispettorati territoriali del Lavoro, Ordini provinciali dei Consulenti del Lavoro) una somma, esente da IRPEF e non assoggettata ad alcuna contribuzione previdenziale, pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto strettamente correlata ad ogni anno di servizio, in misura non inferiore a tre e non superiore a ventisette: il tutto attraverso la consegna di un assegno circolare: le somme sono ridotte della metà con un tetto massimo fissato a sei mensilità per i datori di lavoro con un organico inferiore alle sedici unità.
L’accettazione dell’assegno ha una duplice conseguenza: l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia a qualsiasi impugnativa, pur se già proposta attraverso il deposito del ricorso.
Le somme ulteriori pattuite in sede conciliativa a chiusura di ogni possibile pendenza derivante dall’intercorso rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.
L’articolo si conclude con due commi che riguardano la copertura economica a carico dell’Erario (con importi progressivamente crescenti fino all’anno 2024) ed il monitoraggio della disposizione con un ulteriore obbligo di comunicazione a carico del datore di lavoro.
Con il primo vengono stanziati importi progressivi, a salire, fino al 2024, con il secondo si afferma che il monitoraggio sull’attuazione della disposizione è assicurato dal sistema di controllo e valutazione previsto dall’art. 1, comma 2, della legge n. 92/2012: ma a tal proposito viene introdotto un nuovo obbligo per il datore di lavoro che ha licenziato il lavoratore.
La comunicazione di cessazione, che va spedita on-line al centro per l’impiego attraverso il sistema delle comunicazioni obbligatorie entro i cinque giorni successivi alla cessazione del rapporto, va integrata da una ulteriore comunicazione da inviare sempre allo stesso destinatario entro i sessantacinque giorni successivi alla risoluzione del contratto ove va riportata l’avvenuta o non avvenuta conciliazione, nel caso in cui sia stato attivato il tentativo. La mancata comunicazione è sanzionata con un importo pecuniario compreso tra i 100 ed i 500 euro, onorabile nella misura minima attraverso l’istituto della diffida previsto dall’art. 14 del D.L. vo n. 124/2004.
La norma appena descritta sollecita alcune riflessioni.
La prima riguarda l’offerta di conciliazione: essa va fatta, a mio avviso, per iscritto, entro il termine perentorio dei sessanta giorni (ma l’eventuale accordo può ben “slittare” oltre per alcune considerazioni che farò tra poco), è “gravata” dall’onere della comunicazione on-line circa l’avvenuta o non avvenuta conciliazione da effettuarsi entro i sessantacinque giorni. Essa è facoltativa e si presenta abbastanza favorevole per il lavoratore già dipendente da una piccola impresa (mentre per gli altri sono da tenere in considerazione le modifiche indirette susseguenti la sentenza della Consulta n. 194/2018) che, anche in considerazione dell’abbattimento dell’IRPEF, può ottenere un importo notevolmente vicino a quello che potrebbe ottenere in un giudizio (vanno tenute presenti anche le spese legali) al quale si applica il rito ordinario e non quello “speciale Fornero”, previsto dalla legge n. 92/2012. Va tenuto sempre presente, infatti, che per le piccole aziende l’indennità risarcitoria, dopo i valori aggiornati dal D.L. n. 87/2018, va sempre correlata con la previsione dell’art. 9: quindi, mezza mensilità all’anno, con una base di partenza di una mensilità e mezza e con un tetto massimo fissato a sei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR.
La seconda questione concerne una sorta di comunicazione “standard”: è pensabile che l’offerta contenga la cifra disponibile per la conciliazione sul licenziamento e non necessariamente già gli estremi dell’assegno circolare per il quale la norma prevede che sia l’unica modalità di pagamento. Al contempo, appare opportuno pensare che l’offerta datoriale possa essere accompagnata da un termine per la eventuale accettazione: termine che può essere più o meno lungo entro il quale il lavoratore è chiamato ad aderire (ma la non adesione, perfettamente legittima, potrebbe anche essere tacita).
C’è, poi, una terza questione da affrontare: l’offerta datoriale, nel silenzio della norma, può essere condizionata anche alla eventuale risoluzione delle pendenze di natura economica riferite all’intercorso rapporto di lavoro?
La risposta appare positiva, atteso che la stessa offerta di conciliazione è facoltativa e non sembrano emergere controindicazioni espresse.
La dizione parla di “licenziamento” dei lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 23, senza alcuna distinzione circa la motivazione, specificando che l’offerta economica (incentivata con il contributo dell’Erario, è bene ricordarlo) è finalizzata ad “evitare il giudizio”.
A mio avviso, non avrebbero dovuto essere ricompresi (ma la disposizione non fa eccezioni) i licenziamenti dovuti a motivi nulli (tutela della maternità, matrimonio ecc.) che si conoscono, attraverso apposite certificazioni, prima di una eventuale decisione del giudice, atteso che il Legislatore, in presenza della gravità del fatto (art. 2), ha previsto la reintegra, con il pagamento sia delle retribuzioni maturate che dei contributi previdenziali ed assistenziali, lasciando soltanto alla lavoratrice la possibilità dell’”opting out” con la corresponsione delle quindici mensilità.
Al contempo, con altre disposizioni, ha previsto un intervento degli organi ispettivi di vigilanza finalizzato alla tutela della donna “in particolari condizioni”. Appare strano che lo Stato, attraverso la non assoggettabilità all’IRPEF delle indennità riconosciute, concorra a risolvere economicamente situazioni che sono protette, nella loro definizione finale, dalla legge. Su questo punto c’è da sottolineare come non vi sia stato, sinora, alcun chiarimento né della Direzione Generale delle Relazioni Industriali del Ministero del Lavoro, né dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
La quarta riflessione riguarda le modalità dell’offerta del datore di lavoro: è soltanto lui che può rivolgersi ad una “sede di conciliazione protetta”, che garantisce la inoppugnabilità dell’accordo, entro i sessanta giorni successivi al licenziamento, offrendo al lavoratore una cifra che è la stessa norma a specificare: una annualità (partendo da un minimo di tre), della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, fino ad un massimo di ventisette (per le piccole imprese, come detto, gli importi sono ridotti della metà ed il tetto massimo è fissato a sei mensilità). L’importo riconosciuto non costituisce reddito IRPEF (nel nostro ordinamento c’è stato il precedente dei voucher per il lavoro accessorio fino a 5.000 euro netti, come specificato dall’art. 72 del D.L.vo n. 276/2003, ed, ora, dopo la “cancellazione dei voucher”, l’art. 54-bis, comma 4, della legge n. 96/2017, per “le prestazioni occasionali” o le somme destinate all’incentivo all’esodo fino ad un massimo di nove mensilità, secondo la previsione dell’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015 nell’iter procedimentale dell’assegno di ricollocazione per i lavoratori eccedentari in integrazione salariale straordinaria).
Da un punto di vista procedurale si può pensare che l’organo di conciliazione adito convochi le parti fissando il giorno e l’ora dell’incontro al quale le stesse (in particolar modo il lavoratore) possono essere assistite o rappresentate (secondo le usuali regole che disciplinano la delega) da soggetti esterni come rappresentanti di associazioni sindacali o professionisti (la disposizione non mette alcun divieto).
La discussione, alla quale il datore di lavoro si presenta con un assegno circolare (unica forma di pagamento possibile) con l’importo già prefissato, strettamente correlato all’anzianità di servizio potrebbe non essere del tutto semplice per alcune motivazioni riconducibili ad una serie di questioni:
Per completezza di informazione vale la pena di ricordare come per i lavoratori licenziati da imprese non rientranti tra quelle per le quali è obbligatorio il tentativo di conciliazione in quanto previsto per i recessi per giustificato motivo oggettivo dall’art. 7 della legge n. 604/1966, era già possibile tentare la strada della risoluzione conciliativa concernente il proprio licenziamento attivando la conciliazione facoltativa prevista dall’art. 409 cpc, espletabile ex art. 410 cpc con la procedura minuziosamente prevista dalla riforma introdotta dal 24 novembre 2010 dalla legge n. 183/2010.
Potrebbe accadere che le due richieste “si incontrino” (quella del datore di lavoro e quella del lavoratore ex art. 410 cpc), pur seguendo strade diverse, in quanto per quest’ultima si ipotizzano alcuni passaggi burocratici che, non consentono, alla commissione provinciale di conciliazione di convocare le parti, se non c’è stata l’adesione del convenuto:
Forse, il Legislatore delegato poteva inserire, magari riformando la norma, l’offerta di conciliazione del datore di lavoro all’interno della procedura già prevista, senza pensarne un’altra.
Una ultima considerazione va fatta sull’obbligo per il datore di lavoro (coperto da sanzione amministrativa) di comunicare entro i sessanta giorni successivi al licenziamento se è avvenuta o meno la conciliazione: tutto questo ai fini del monitoraggio dell’istituto, cosa del tutto condivisibile, atteso che, fino al 2024, la disposizione destina a tale scopo risorse economiche crescenti.
Però, mi chiedo: ha senso una comunicazione di tal genere in un tempo così ristretto, atteso che nella pratica, il datore di lavoro effettuerà l’offerta verso il sessantesimo giorno, perché, magari, attende la comunicazione della impugnativa che, sovente, viene prodotta quasi alla scadenza del termine (ma che arriva anche oltre se viene effettuata con lettera raccomandata l’ultimo giorno) e che occorre attendere la convocazione dell’organo collegiale (commissione provinciale di conciliazione, sede sindacale, commissione di certificazione) eventualmente adito? La perentorietà del termine (sessanta giorni) riguarda soltanto la presentazione dell’offerta al lavoratore e non la sottoscrizione dell’atto di conciliazione che può, legittimamente, avvenire successivamente (non esiste un termine perentorio), soprattutto se il datore di lavoro vuole legare a tale conciliazione anche un’altra riferita agli aspetti di natura economica dell’intercorso rapporto, rispetto ai quali il lavoratore potrebbe ben avere la necessità di fare un minimo di conti e di controlli. Aver posto il termine di sessantacinque giorni dal licenziamento per sapere se è avvenuta o meno la conciliazione (tutto questo ai fini del monitoraggio) non serve assolutamente a nulla: tutto al più, si poteva mettere un termine più ampio ed il dato sarebbe stato molto più significativo.
L’adempimento relativo alla comunicazione, reso operativo dalle note del Ministero del Lavoro n. 2788 del 27 maggio 2015 e n. 3845 del successivo 22 luglio, va effettuato con il modello “UNILAV Conciliazione” e che, come detto in precedenza, la mancata, ritardata od errata comunicazione è punita con una somma di importo compreso tra 100 e 500 euro, onorabile, attraverso l’istituto della diffida, con il pagamento della sanzione nella misura minima.